Poeta italiano. Passò la giovinezza a Roma, da dove
fu cacciato per aver ucciso un suo rivale. Girò di corte in corte, a
Firenze, a Torino, a Mantova, sempre ben accolto e acclamato. Come tutti i
secentisti il
C. pensava che la poesia fosse "obbligata di far inarcar le
ciglia": ma per raggiungere questo scopo non si servì (come il Marino e
gli altri seicentisti) dell'immagine sorprendente e della parola capace di
meravigliare; piuttosto contò sulla solennità dell'eloquio e sulla
materia eroica, sublime. Scrisse poemi eroici:
Gotiade, Firenze,
Amedeide; drammi pastorali e melodrammi:
Rapimento di Cefalo, Alcippo,
Pianto d'Orfeo; tragedie:
Erminia, Angelica in Ebuda. Ma il suo nome
è legato soprattutto alle canzoni eroiche in cui l'imitazione da Pindaro
si rivela come un fatto esterno e formale, mentre manca l'adesione del
sentimento all'intima ragione del canto. Con l'anima e non solo con l'ingegno
egli attese, invece, alla ricerca di uno stile e agli studi di metrica. I suoi
cinque
Dialoghi dell'Arte poetica trattano del "verso eroico", della
"tessitura delle canzoni" e degli "ardimenti del vezzeggiare" e in questo campo
il
C. ha esercitato un influsso innegabile dall'Arcadia, al Parini, al
Foscolo delle odi, fino al Carducci (Savona 1552-1638).